Storia di una figlia “cargiver”

Vorrei raccontare la mia esperienza e i vissuti di figlia di una mamma con diagnosi di depressione maggiore e disturbo borderline. La diagnosi nel servizio di salute mentale è arrivata tardi dopo vari episodi gravi più o meno, ma certamente resi più pesanti dalla presenza di due figli minori che avevano perso il padre. Tutto questo periodo è durato un’eternità e ricordo gli attimi interminabili passati a scrutare il volto di mia madre per cercare di cogliere qualche avvisagli di benessere  e il più delle volte scorgere malessere. Ricordo alcune peculiarità nel volto: i tratti tesi in un leggero gonfiore che precedevano la crisi, il picco maniacale prima e depressivo poi. La nostra storia ad un certo punto si focalizza su mio fratello che inizia a fare uso di droghe e da quel momento il baratro per mia mamma; i rimpalli tra ricoveri in SPDC e psichiatri del Centro di Salute Mentale che davano pillole di farmaci e regole comportamentali condite da frasi del tipo “signora si tiri su e si dia una mossa”.

Solo dopo tanti anni ho capito l’indecenza deontologica di quelle frasi, quando mi è toccato sulla mia pelle affrontando attacchi di panico e ansia e un corpo che urlava “basta”! Mia mamma ha tentato più volte il suicidio più o meno in maniera lucida e intenzionata e finiva prima in ospedale e poi in clinica convenzionata dove veniva stabilizzata dai farmaci. Appena tornava a casa si riproponevano le stesse dinamiche patologiche con il figlio tossicodipendente e in pochi giorni piombava annientata nel buio. Negli ultimi due anni ho lottato duramente chiedendo aiuto ai servizi sociali e al Centro di Salute Mentale per dividere mia mamma da mio fratello. Nel frattempo il CSM del paese in cui viviamo ha chiuso e trasferito i servizi in un paese che dista da noi 16 km! Ho ricevuto pareri contrari a questa mia decisione a favore della teoria che doveva rimanere nella sua casa, nonostante la casa era in condizioni malsane e trascuratissime. Non solo il degrado dell’incuria ma anche dei furti operati da mio fratello per prendere soldi per una dose di cocaina.

Sono andata avanti convinta di agire per il loro bene, avendo contro tutti dai medici ai parenti ai diretti interessati! Alla fine ho deciso di prenderla in casa con me, offrendole un appartamento adiacente autonomo. La convivenza con mia mamma prevede che io debba seguirla su tutto: dall’alimentazione alla terapia e non riesco però a farla uscire dal suo guscio. Dopo un anno in cui mio fratello è rimasto solo e senza soldi, alla fine mi ha chiesto di andare al Sert per entrare in comunità.

Mi sono rivolta di nuovo al servizio chiedendo loro che aldilà della terapia che compensa i sintomi, dov’è il progetto per la sua riabilitazione? Non accetto di sentirmi dire che su una persona come mia mamma non si può lavorare a livello psicoterapeutico! La famiglia viene abbandonata e io sono sola e ho bisogno di essere aiutata, visto che ho anche un marito e tre figli di cui occuparmi! Il servizio non era nemmeno informato sui Centri Diurni del mio paese!!! La famiglia è un sistema e la persona ne fa parte e se non si integrano e supportano tutti gli aspetti abbiamo fallito completamente cari Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale!

M. da un paese della zona nord di Roma

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